giovedì 9 ottobre 2008

Quasi un'introduzione (2008/2009)

Un vecchio adagio – che oggi appare antichissimo – recitava così: «ci occupiamo del futuro, perché è lì che trascorreremo il resto della nostra vita». Se sostituissimo il termine “futuro” con “democrazia” stravolgeremmo il significato di quel motto, ma probabilmente diremmo qualcosa di vero riguardo alle aspettative di un ipotetico cittadino occidentale nostro contemporaneo.
È stato scritto, un’infinità di volte, che Europa e Stati Uniti sono la culla della democrazia, la sua dimora naturale ed il più solido bastione contro il dispotismo politico. Nemmeno il «contagio autoritario» patito dal continente europeo nella seconda, terza e quarta decade del XX secolo ha potuto seriamente incrinare questa immagine un po’ oleografica: l’«usurpazione della nostra tradizione», come ebbe a definirla Hannah Arendt – la tradizione della Magna Charta, dei diritti individuali, del parlamentarismo – rappresenta una pagina cruciale quanto tragica della storia recente, ma non ha impedito che istituzioni rappresentative venissero nuovamente instaurate, e con successo, al termine della Seconda Guerra Mondiale o dopo la caduta del Muro di Berlino. Una ragionevole dose di pessimismo intellettuale è sempre accettabile e persino raccomandabile, ma eccederemmo in cupezza se oggi scorgessimo i lineamenti di una evoluzione in senso autocratico dei nostri sistemi politici.
Tuttavia, si ha talora l’impressione che la democrazia, pur idealmente apprezzata, provochi quotidianamente amarezza, sconforto, frustrazione. È un fenomeno ben noto a sociologi e psicologi, che utilizzano il termine “disincanto” per definire il processo di disillusione che coinvolge chiunque (individualmente o collettivamente) tenti di mettere in pratica un’idea, pretendendo che la realizzazione coincida perfettamente con la sua proiezione astratta. Già Platone aveva magistralmente compreso l’enorme scarto esistente fra idealità e realtà, fra i modelli mentali che delineiamo e la loro forma effettiva, calata nella storia, allorché gli uomini debbono misurarsi – per dirla con Pasternak – con la «grezza materia del mondo».
La disillusione è inevitabile? In parte sì. La perfezione, si sa, non è di questo mondo, e certamente nulla è più distorto, disorganico e contingente del cosiddetto «pluriuniverso del politico» (Carl Schmitt). Ma, per contro, il disincanto è sovente originato dall’eccesso di aspettative che la democrazia – o, meglio, una certa teoria della democrazia, una certa visione di essa – suscita in ognuno. Col termine “democrazia” (si rilegga il Pericle tucidideo) non si designa infatti soltanto un regime politico, ma anche una cultura, una sensibilità, un insieme di valori, una particolare forma di società, e via dicendo. E può quindi avvenire che ad esso vengano associati, in modo più o meno arbitrario, una pluralità di significati, sfumature, valenze, che finiscono col farne una panacea per ogni male.
Il corso «Pensare la politica: la democrazia all’opera» muove da un assunto provocatorio: anziché pretendere di forzare inverosimilmente la realtà (tentativo disperato quanto fallimentare), perché non abbassare le nostre pretese? La scienza politica – intesa come riflessione empirica sull’agire politico, mirata a comprendere il funzionamento effettivo degli istituti analizzati – ci aiuta a comprendere quali aspettative, nei confronti della democrazia, siano fondate, e quali invece una semplice proiezione dei nostri desideri, pretese irrazionali o insensate. Esaminare la democrazia all’opera in modo realistico (non cinico, ma nemmeno venato di utopismi fuori luogo) può forse allontanarci dal rischio di dileggiare quella «democrazia possibile» (Giovanni Sartori) che, sebbene imperfetta e carente, rappresenta pur sempre il tentativo più civile e sofisticato elaborato dalla civiltà umana per risolvere pacificamente controversie e conflitti.
Capire la democrazia, prima di esaltarla: così potremmo riassumere la finalità del corso.
Nel XX secolo, la «teoria economica della democrazia» ha elaborato strumenti di rara raffinatezza per analizzare in modo distaccato il comportamento dei principali attori politici. La partecipazione, il voto, la formazione di una maggioranza, la rappresentanza e molti altri fenomeni sociali appaiono sotto nuova luce: forse meno nobile, certamente meno mitizzata. Il progetto, nell’arco di cinque incontri, mira ad offrire un’introduzione a questa rivoluzionaria ed influente scuola di pensiero, la cui lezione, per quanto severa, può rappresentare un ottimo punto di partenza nella ricerca di una visione più matura e consapevole della democrazia, la cui principale ricchezza risiede non in presunte virtù taumaturgiche, bensì proprio nella sua precaria e correggibile natura.

giovedì 2 ottobre 2008

Disordine mondiale e vita pubblica

Questo non è un blog di attualità e non aspira a divenirlo. Tuttavia, capita a volte di imbattersi in analisi - persino sulle colonne della grande stampa - che colgono alcuni stimoli sostanzialmente affini alle tematiche di cui, indirettamente, si dà conto su questa pagina web. Ezio Mauro, su La Repubblica di oggi, offre una disamina dell'attuale crisi finanziaria tale da suscitare l'interesse di chi si occupa di teoria politica. Non è detto che si debba concordare con lui, ma una sana lettura non guasta.

Il nuovo disordine mondiale
di EZIO MAURO

Non è solo finanza, non sono banche e Borsa solamente che stanno bruciando in questo incendio mondiale che sembra voler resettare il secolo dagli ultimi inganni e dall'unica ideologia superstite - un mercato universale senza Stato e senza governo - prima di farlo davvero ripartire. Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa. Ma non c'è dubbio che un pezzo di modernità sta saltando insieme alle banche d'affari, e questo ci coinvolge tutti, dovunque e comunque viviamo, perché ciò che va in crisi a Wall Street riguarda non solo l'America ma l'Occidente. In realtà vengono oggi al pettine nodi politici, economici, culturali, che nascono tutti nel Novecento mentre credevano di risolverlo, e sono invece arrivati fin qui senza riuscire a sciogliersi.

La credenza, prima di tutto, di una ricchezza e di una crescita senza il lavoro, senza una comunità di riferimento, dunque senza una responsabilità pubblica e le regole che ne conseguono. La riduzione della complessità della globalizzazione alla sola dimensione economica, anzi finanziaria. Lo scarto tra economia reale e realtà dei mercati finanziari, tra le transazioni valutarie e le transazioni commerciali, tra le merci, la moneta e il clic che invia l'ordine di comprare o di vendere in base a indicatori computerizzati. Il divario tra ricchi e poveri, che il boom tecnologico e finanziario ha accentuato, anche dentro gli stessi Paesi in via di sviluppo. Le nuove, improvvise gerarchie sociali che sono nate da questo sommovimento con una forza culturale che pretende il riordino di competenze, saperi, professioni, gruppi sociali, comunità, quartieri, aree del mondo e Paesi.

Il nuovo disordine mondiale, oggi, nasce proprio da qui.
La prima reazione alla crisi è il timore di rimanere coinvolti nella perdita improvvisa di ricchezza dovuta all'inganno di prodotti finanziari avariati, o alla speculazione sulla perdita di credibilità universale delle banche, o alla paura irrazionale che diventa panico e fuga.

Ma subito dopo, o contemporaneamente, cresce la preoccupazione per una domanda di governo complessiva della situazione, che non trova risposta, perché non sa nemmeno più quale sia il soggetto giusto a cui rivolgere la pretesa del cittadino di essere tutelato. Di vedere all'opera quello strumento di cui la globalizzazione credeva di poter fare a meno, nell'illusione di bastare a se stessa: cioè la politica.

Il problema è che in questi anni è finita fuori gioco non soltanto la politica come tecnica, o come azione delle istituzioni, ma qualcosa di più complesso. La rivoluzione finanziaria internazionale ha sfidato l'autorità tradizionale, la potestà stessa dello Stato-nazione a cui oggi i cittadini si rivolgono, come sempre nei momenti di crisi, accorgendosi improvvisamente che è scavalcato dai flussi e dalle reti della globalizzazione, i quali creano una nuova legittimità transnazionale - e non solo un mercato universale - a cui non corrispondono né uno Stato né un governo. La "bolla" è quanto di più moderno esista, perché non ha luogo, non ha confini, ignora le distanze come le tradizioni, conosce un'unica legge che è quella della crescita. Ma per le stesse ragioni è quanto di più lontano dallo Stato nazionale, dai suoi computi fiscali e dalla sua rete di responsabilità solidali o anche soltanto sociali. Quando va in crisi un sistema finanziario che muove ogni giorno una massa di scambi valutari molto superiore al Pil di vari Paesi, nessuna istituzione statale ha la capacità e la legittimità per controllare quel flusso in movimento.
Ci accorgiamo così che in questo processo non c'era stata soltanto una scissione tra capitale e lavoro, già consumata e evidente a tutti. In realtà è saltata l'alleanza tradizionale tra l'economia di mercato e lo Stato sociale, come dice Ulrich Beck, un'alleanza che ha sorretto per decenni il diritto, le istituzioni, la politica, la legittimità stessa delle classi dirigenti che si alternavano al comando, in una parola la forma pratica e quotidiana della democrazia occidentale. Da qui discendeva l'autorità (estenuata e faticosa, e tuttavia resistente) del governo della democrazia, e da questa autorità nasceva la governance della modernità che conosciamo, probabilmente l'unica possibile. Questa legittimità democratica nel governo della complessità contemporanea risiedeva soprattutto nel tavolo di compensazione tra i premiati e gli esclusi, quello che Bauman chiama il "nesso" tra povertà e ricchezza, una dipendenza che in realtà è un vincolo di responsabilità e attraverso la civiltà del lavoro (con i suoi conflitti) ha tenuto fino a ieri insieme e in gioco i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Se questo è vero, c'è addirittura un contratto sociale da riscrivere, una sovranità da ristabilire, un'autorità democratica che garantisca i diritti anche nel mondo postnazionale, prendendo possesso persino delle bolle senza spazio né tempo della globalizzazione. Anche perché la crisi complica la prospettiva, ma ripulisce lo sguardo. Il broker per strada a Wall Street, con la sua biografia professionale nello scatolone del licenziamento, esce dall'indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale, politica, che non abita solo i numeri della finanza globale, ma cammina per la città reale. Così come il consumatore finirà per tradurre su se stesso - cioè su un soggetto di nuovo politico, sociale - il saldo finale del salvataggio americano, attraverso il peso ingigantito del debito. Tornano così ad avere senso quelle categorie che non riuscivano ad afferrare la crisi, perché i suoi paradigmi erano tutti post-moderni, creati per un'altra dimensione: il diritto, la diplomazia, la politica internazionale, addirittura il sindacato. Con l'ambizione di non tornare indietro, né attraverso la regressione di una chiusura insensata nei nazionalismi né attraverso la tentazione di contrapporre Main Street a Wall Street, vellicando le paure per farle popolo, o almeno plebe, comunque forza d'urto populista.

Una rete sociale, culturale, politica e istituzionale (basta pensare all'Europa e ai suoi ritardi) da ricostruire. Che gran compito per la politica: se la politica ci fosse, e soprattutto se fosse capace di pensare se stessa senza pensare politicamente.