sabato 12 gennaio 2008

Primo incontro

Invio qualche nota di riepilogo in merito all'incontro di due giorni fa, soprattutto a beneficio degli assenti.

Mercoledì 9 gennaio, aprendo il corso, ho chiarito da subito che finalità di questi incontri non è la somministrazione di conoscenze, bensì suscitare interesse, curiosità, interrogativi intorno a tematiche tendenzialmente ai margini del canonico curriculum liceale. Marginalità difficilmente comprensibile, giacché ognuno di noi – anche chi non farà della politica né una professione, né l’oggetto dei propri studi – sarà periodicamente chiamato ad imbattersi in problemi politici, così vasti e determinanti da condizionare in modo significativo la sua vita. Richiamando la definizione di democrazia come «potere in pubblico» (N. Bobbio), ho inteso porre l’accento sul fatto che la politica ci riguarda: e disinteressarcene, per quanto legittimo, non riduce certamente l’incidenza che essa ha su di noi (ma, tutt’al più, la nostra su di essa).
Il fatto che tutti, in un modo o nell’altro, siamo “ostaggi” della realtà politica non significa però che agire politicamente sia semplice, o che la comprensione della politica sia qualcosa di banale e immediato. Al contrario essa richiede prudenza ed impegno. Può essere utile, quindi, acquisire da subito consapevolezza delle principali insidie in cui siamo destinati ad imbatterci, muovendo i primi passi in un simile terreno minato.
Anzitutto vi è la tentazione – diffusa anche tra gli specialisti – di credere che determinate istituzioni o idee siano sempre esistite e sempre esisteranno, dando per assodato che il patrimonio concettuale mediante cui noi oggi operiamo sia rimasto sostanzialmente lo stesso dai Greci ai giorni nostri. In altri termini, l’universo politico assomiglierebbe ad una sorta di “Meccano”, che ogni civiltà avrebbe composto e ricomposto a suo modo, servendosi però dei medesimi pezzi. Ciò ha spinto alcuni, ad es., a definire acriticamente «Stato» qualsiasi organizzazione del potere operante su un territorio, di fatto condannandosi a non comprendere che: a) l’idea di Stato, propriamente intesa, affonda le proprie radici nell’età moderna, e non può esser fatta risalire all’esperienza ellenica o romana; b) lo Stato, nelle forme in cui l’Occidente l’ha conosciuto, è attualmente oggetto di radicali processi di trasformazione (riconducibili anzitutto alla globalizzazione e all’affermazione di autorità sopranazionali, quale l’Unione Europea) che potrebbero metterne a repentaglio l’esistenza.
La realtà politica, essendo di per sé dinamica e mutevole (ossia storica), non può essere imbrigliata all’interno di un lessico statico, né considerata mai perenne e definitiva.
In secondo luogo, abbiamo sottolineato i rischi insiti nell’illusione che il “buon senso” scevro da riflessioni ulteriori possa rappresentare una risposta neutrale e risolutiva ai più urgenti problemi politici del nostro tempo. Lungi dall’aver posto fine a millenari dibattiti sull’essenza del politico e le sue sfaccettature, l’ondata di pragmatismo susseguente alla caduta del Muro di Berlino, testimoniata dalla popolarità di autori dichiaratamente post-ideologici (C. Lasch, A. Giddens, F. Fukuyama), ci induce invece a ricordare come ogni forma di pensiero – anche la più “neutra” ed “imparziale” – debba fare i conti con la tradizione culturale entro cui è nata, e da cui ha ereditato, in modo più o meno consapevole, quegli stessi postulati e categorie concettuali da cui intende emanciparsi. Il pensiero umano è sempre storico; ogni impostazione mirante a negare l’importanza dell’evoluzione nelle vicende umane conduce alla sterilità euristica e all’impoverimento conoscitivo.
Il che ci ha spinto – e giungiamo così al terzo punto – ad evidenziare le difficoltà avvertite da ognuno di noi nel tentare di comprendere un’opera del passato: difficoltà dovuta al linguaggio, potente filtro che ci impedisce di cogliere in modo immediato il significato di un testo.
Per comprendere ciò che, ad es., Machiavelli od Hobbes intendevano dire (decodificare, cioè, cioè quelli che Austin e Searle hanno definito “atti illocutori”) non è possibile prescindere da una contestualizzazione del testo, soffermandosi in particolare sugli usi linguistici dell’epoca.
Successivamente, abbiamo messo in luce un’importante distinzione interna alla comunicazione politica: quella fra linguaggio comune e linguaggio specialistico.
Secondo G. Sartori, il linguaggio comune: a) è formato da pochi vocaboli; b) tali vocaboli spesso celano una pluralità di significati, tendenzialmente indefiniti; c) mira alla semplicità espositiva; d) fa appello alla dimensione emotiva, ricercando l’adesione passionale dell’ascoltatore.
Il linguaggio specialistico: a) è formato da numerosi vocaboli; b) tali vocaboli hanno significati precisi e dettagliati; c) mira alla chiarezza espositiva; d) fa appello alla dimensione razionale, ricercando la chiarezza logica dell’esposizione.
Mentre il linguaggio comune risulta sviluppato in qualsiasi contesto sociale, il linguaggio specialistico si è storicamente affermato in contesti collettivi particolarmente articolati e sofisticati, come risposta alle esigenze di organismi sociali complessi (es. la società di massa diffusa in Europa e USA fra XIX e XX secolo). Tale distinzione non ha però finalità gerarchiche: non si intende infatti sancire la superiorità del linguaggio specialistico su quello comune (che peraltro sopravvive ampiamente nella discussione politica quotidiana, specialmente nell’attività persuasiva da parte dei leaders), bensì rimarcare la diversità di origini e di funzione.
Infine abbiamo distinto due sfere di applicazione del linguaggio specialistico: la filosofia politica e la scienza politica. Il rapporto fra esse è particolarmente complesso e controverso. Possiamo avanzare una macrodemarcazione fra esse (non l’unica, ma senza dubbio la più nitida) distinguendole sulla base dei quesiti che le animano. La filosofia politica si interroga, in prima istanza, sul grado di giustizia di un determinato ordine e/o istituto, sottoponendolo ad una valutazione di carattere etico-morale (c.d. giudizio di valore). La tradizionale domanda al cuore della filosofia politica, dall’antichità ad oggi, verte sulla miglior forma di governo (cfr. Erodoto, III 80). La scienza politica, viceversa, si basa sulla concreta praticabilità di un ordinamento, concentrandosi cioè sulle condizioni materiali che ne rendono possibile l’esistenza (“buono” o “cattivo” che sia). Essa si fonda, principalmente, sulla raccolta di dati empirici e si pone obiettivi applicativi (c.d. giudizio avalutativo). L’avalutatività come criterio distintivo fra scienza e non-scienza è al centro degli scritti metodologici dal sociologo tedesco Max Weber.

PS. Consiglio, a chi volesse riflettere sul rapporto fra conoscenza della politica e concrete possibilità di agire, la visione di "Leoni per Agnelli" al cinema, prestando particolare attenzione ai dialoghi fra il professor Malley (Robert Redford) e l'allievo Todd Hayes (Andrew Garfield).