martedì 13 marzo 2012

Sesto incontro: riassunto

Pubblico di seguito la sintesi dell’incontro svolto lunedì 12 marzo. Il testo contiene alcuni link.


La prima parte dell’incontro è stata dedicata alla conclusione della trattazione dei fondamenti economici del mercato unico.

• E’ stato sottolineato come siano frequenti i tentativi, da parte dei produttori già affermati, di esercitare pressioni sulle autorità politiche affinché esse limitino la concorrenza, sia in campo nazionale sia in campo internazionale. Ciò che rende così frequenti tali restrizioni – come spiegato da Mancur Olson nel suo classico studio – è il fatto che, mentre i benefici della concorrenza si distribuiscono su una massa di persone non organizzate (i consumatori), rendite e monopoli garantiscono elevati margini di profitto a vantaggio di un ristretto numero di persone organizzate (i produttori). È quindi molto facile che le associazioni dei produttori, attraverso attività di lobbying, possano vedere approvate norme a loro favorevoli, che vanno invece a danno dei consumatori (costretti a pagare prezzi più alti) o dei contribuenti (che si vedono tassati per finanziare sussidi alle imprese);

• La tutela del consumatore è in genere affidata, a livello nazionale, ad autorità indipendenti dotate di poteri di sanzione nei confronti di quelle imprese che adottino comportamenti non concorrenziali o lesivi degli interessi del consumatore. In Italia esiste la AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). In Europa, un ruolo centrale è svolto dal Commissario europeo per la Concorrenza, che sanziona in primo luogo le politiche degli Stati membri volte ad ostacolare o a distorcere (favorendo alcune imprese a scapito di altre) il corretto funzionamento del mercato unico europeo.

• Chi volesse consultare dati sui benefici derivanti dalla concorrenza per il consumatore / utente italiano ed europeo, suggerisco di dare un’occhiata qui e qui.

Nella seconda parte dell’incontro sono state discusse cause e prospettive della crisi economica in corso, traendo spunto – in particolare – dalle analisi di Martin Feldstein e Paul De Grauwe.

• E’ stato anzitutto evidenziato come sia improprio parlare di “crisi dell’Euro”. I livelli relativamente e mediamente bassi di inflazione all’interno dell’Eurozona e un tasso di cambio ‘forte’ nei confronti delle altre principali valute mondiali (Dollaro, Yuan) rivelano che in Europa non è in corso una crisi valutaria. È invece corretto dire che alcune caratteristiche della moneta unica e dei meccanismi di governance della stessa rendono più difficile contrastare la crisi in atto. È opportuno parlare, pertanto, di “crisi dell’Eurozona” (cioè dei Paesi che utilizzano l’Euro), anziché dell’Euro;

• I sintomi principali della crisi dell’Eurozona sono: a) la crisi dei debiti sovrani, ossia la difficoltà da parte di alcuni Stati a pagare gli elevati interessi sul debito pubblico da essi contratto; b) la crisi del credito, che vede numerose banche europee esposte nei confronti di soggetti pubblici e privati, in misura tale da renderle a rischio fallimento; c) livelli di disoccupazione elevati e in crescita nella maggior parte degli Stati; d) elevati deficit commerciali in Paesi come Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, che importano molto più di quanto riescano a esportare;

• La terapia individuata dai Paesi membri della UE attraverso il trattato intergovernativo noto come “Fiscal Compact” prevede politiche di austerità, da perseguire a livello statale, volte ad assicurare il pareggio tendenziale di bilancio (cioè il pareggio fra entrate e uscite dello Stato), la progressiva riduzione del debito pubblico accumulato sino alla soglia del 60% del PIL, il rafforzamento del ruolo di Commissione e Corte di Giustizia dell’Unione europea con funzioni di monitoraggio sull’andamento dei conti pubblici ed eventuali sanzioni. Nel contempo vengono istituiti strumenti di assistenza finanziaria cui possano ricorrere i Paesi in crisi. Il Fiscal Compact si pone nel solco dei parametri di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita firmato nel 1997;

• La terapia individuata a livello europeo è stata difesa e criticata da più fronti. Da un lato, i sostenitori della posizione che – per semplicità – potremmo definire “rigorista” tendono ad evidenziare l’importanza di assicurare la sostenibilità dei debiti pubblici europei nel lungo periodo, recuperando così credibilità agli occhi degli investitori internazionali, di migliorare la competitività di Paesi dell’Europa meridionale, di implementare meccanismi sanzionatori più efficaci nei confronti di quegli Stati che non rispettano le regole comuni. Dall’altro, i sostenitori della posizione che, ugualmente semplificando, potremmo etichettare come “anti-rigorista” sottolineano come misure di austerità (es. tagli alla spesa pubblica, aumento delle imposte) attuate in un periodo di recessione finiscano per aggravare e prolungare la stessa, propongono l’aumento del deficit e dell’indebitamento pubblico (o quantomeno una loro riduzione più diluita nel tempo), talora – nelle versioni più estreme – arrivano a prospettare l’eventualità di dichiararsi ‘insolventi’ e di non ripagare il debito pubblico contratto;

• La tesi che sembra prevalere attualmente fra gli economisti è che il Fiscal Compact risolva alcuni problemi, ma non tutti. Esso pone freni – nel complesso utili nel lungo periodo – all’indebitamento pubblico da parte degli Stati membri dell’Unione, ma non fa nulla per temperare i disequilibri strutturali a livello produttivo fra gli Stati stessi;

• L’analisi dei dati economici rivela alcuni fatti non scontati e spesso trascurati nel dibattito pubblico;

• In primo luogo, se è vero che alcuni Paesi (in particolare l’Italia) sono da decenni gravati da un elevato debito pubblico, è anche vero che nella maggior parte dei Paesi europei il rapporto debito / PIL si è fortemente deteriorato dopo lo scoppio della crisi economica, a causa degli stabilizzatori automatici (es. dimunizione delle entrate fiscali) o di bailout (es. nazionalizzazione delle banche in Irlanda);

• In Paesi come Grecia, Spagna e Italia ad essere cresciuto, fra il 2000 e il 2010, è soprattuto l’indebitamento privato, un problema spesso trascurato dai “rigoristi”.

• Un’analisi comparata delle politiche economiche adottate in Italia e in Germania dopo il 1998 si rivela di particolare interesse per comprendere le cause della crisi dell’Eurozona. Dati alla mano, è possibile osservare che:

a) l’Italia ha beneficiato di tassi di interesse molto più bassi per rifinanziare il proprio debito pubblico grazie all’ingresso nell’Euro;
b) l’Italia ha utilizzato i risparmi derivanti dalla minor spesa in interessi sul debito in larga parte per aumentare la spesa pubblica corrente, in particolare la spesa pensionistica e le retribuzioni in alcuni settori del pubblico impiego;
c) l’Italia non ha ridotto in modo drastico il proprio debito pubblico dopo l’ingresso nell’euro, come fatto da altri Paesi (il caso più significativo è quello del Belgio);
d) l’Italia ha mantenuto un’elevata pressione fiscale (cioè ha mantenuto un elevato rapporto fra tassazione e PIL) sui redditi e – soprattutto – sul lavoro, arrivando ad aumentarla a partire dal 2003;
e) l’elevato costo del lavoro ha contribuito a rendere i prodotti italiani meno competitivi e quindi meno facilmente esportabili; ne segue che:
f) l’Italia è stata caratterizzata da una bassissima crescita economica nel periodo 2000-2008 (pre-crisi);

Parimenti, è possibile notare che:

a) la Germania ha sì aumentato il proprio rapporto / debito PIL già prima della crisi, ma l’ha mantenuto – fino al 2010 – sotto la soglia del 70%, a un livello significativamente più basso di quello italiano;
b) la Germania ha scelto di ridurre significativamente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale;
c) la Germania si è posta l’obiettivo di rendere la propria economia più competitiva, aumentando la produttività del lavoro e contenendo gli aumenti salariali. Ciò ha reso i prodotti tedeschi più facilmente esportabili; ne segue che:
d) la Germania è stata caratterizzata da una forte crescita economica nel periodo 2000-2008 (pre-crisi).

• Il crescente divario di competitività fra la Germania e Paesi che, come l’Italia, sono divenuti meno competitivi ha spinto cittadini e operatori finanziari tedeschi a investire il surplus della loro bilancia commerciale nel finanziamento a credito – pubblico e privato – ai cittadini dei Paesi meno competitivi. Sono stati acquistati, in particolare, bond emessi da tali Stati. Con lo scoppio della crisi dei mutui subprime in America e il susseguente rallentamento delle economie europee, nonché con la scoperta di frodi contabili pluriennali da parte della Grecia, si è verificata la crisi dell’Eurozona: i Paesi più indebitati o che più faticano a crescere economicamente hanno mostrato crescenti difficoltà a potere sostenere il debito pubblico, collocando i propri titoli di Stato a tassi via via più elevati.

• Per una sintesi di questa interpretazione della crisi dell'Eurozona, consiglio questa iconografia curata dalla BBC.

• Come risolvere gli squilibri nelle bilance dei pagamenti dei Paesi? Una prima strada, attualmente caldeggiata dal governo italiano, dal governo inglese e da altri esecutivi (ma non da Francia e Germania) consiste nell’ampliamento e nel rafforzato del mercato comune. Permettere ad aziende italiane, spagnole, portoghesi di competere in settori in cui, oggi, ancora prevale la difesa dell’interesse nazionale da parte della Germania potrebbe favorire la crescita economica dell’Unione e migliorare la bilancia dei pagamenti dei Paesi meno competitivi.

• Una seconda strada, di lungo periodo e più ambiziosa, consiste nella trasformazione della Ue in una vera e propria unione fiscale, contraddistinta da trasferimenti compensativi dalle zone più floride alle zone meno floride. E’ quanto succede, ad esempio, negli Stati Uniti dove – attraverso le imposte federali – Washington esercita forme di redistribuzione su base territoriale, trasferendo risorse dagli Stati con un PIL pro capite più elevato (es. Delaware, New York) a quelli contraddistinte da un PIL pro capite meno elevato (es. Mississippi, New Mexico) attraverso l’erogazione di servizi pubblici federali.

• A mo’ di conclusione, raccomando la visione di questa breve intervista rilasciata nel settembre 2011 da Jacques Delors, presidente della Commissione europea fra il 1985 e il 1995, che formula interessanti considerazioni sulle origini dell’euro, sui suoi potenziali sviluppi, sull'emarginazione delle istituzioni comunitarie a vantaggio di quelle intergovernative come concausa della crisi dei debiti sovrani: http://www.youtube.com/watch?v=uTpOY7G3lgw [segnalo tuttavia uno strafalcione di traduzione da parte di Euronews: la "presidenza polacca" cui Delors fa riferimento non è quella del Consiglio europeo, che spetta a un individuo preciso - attualmente Herman Van Rompuy -, ma quella del Consiglio dell'Unione europea, che avviene sulla base di una rotazione semestrale].